Il Santuario di Santa Lucia V.M. di Villanova Mondovì.
La valle dell’Ellero: il fenomeno carsico.
Nelle valli alpine del monregalese si sviluppano molte fra le più belle grotte del Piemonte; questo perché la natura geologica delle Prealpi Marittime, che finiscono dolcemente nella pianura piemontese, si presta favorevolmente ai fenomeni carsici. Infatti, mentre la pianura risulta superficialmente composta di argille, sabbie e ghiaie così come nella collina predominano marne e arenarie, la parte montuosa è formata di calcari cristallini poggianti su di un potente strato di arenarie metamorfiche. In molte grotte dell’area vi è abbondanza di acque correnti; veri e propri torrenti ipogei formanti laghi, rapide e cascate di splendido effetto scenografico. Diverse cavità raggiungono lunghezze di più chilometri e profondità di varie centinaia di metri e alcune di esse hanno grandiose dimensioni ambientali.
Delle diverse caverne, grotte e aperture del monregalese, sono maggiormente conosciute e accessibili ai visitatori la grotta di Bossea e quella del Caudano, mentre nella media Valle Ellero, sui versanti opposti del monte Calvario, sono note la grotta dei Dossi e la grotta di S. Lucia. La valle dell’Ellero, torrente affluente del fiume Tanaro all’altezza della regione di Bastia, è una delle più note vallate del comprensorio monregalese. Orientata da sud-ovest a nord-est ed affiancata dalle valli Pesio e val Maudagna, culmina la propria estensione a 2630 m. di altitudine sul monte Mongioie, tracciando il confine meridionale tra il territorio cuneese e la Francia.
Sul pendio sud-est del monte Calvario, affacciato quindi verso la Valle dell’Ellero, è inserito il Santuario di Santa Lucia. Analogamente, ma sul versante opposto, nella nascosta e tranquilla vallata del rio Pogliola che conduce al lago di Pianfei, fu scoperta la grotta dei Dossi. Questa cavità naturale, situata circa alla stessa quota altimetrica della precedente (626 m.), fu scoperta casualmente il 13 marzo del 1797 da un cacciatore che inseguiva una volpe ferita rintanatasi in un antro. La ricerca dell’animale portò alla scoperta di ampie cavità sotterranee ricchissime di stalattiti: cominciò allora un quasi continuo pellegrinaggio con ben altro scopo, purtroppo, che quello dello studio; si stima ormai che una quantità incalcolabile di incrostazioni sia stata asportata dalla grotta.
Solo il 4 ottobre 1892, per intercessione della Società amministratrice della grotta, cominciarono i lavori di adattamento; lunghi e costosi, furono volti a limitare i disagi ed a togliere i pericoli a cui dovettero esporsi i primi esploratori.
La grotta gode inoltre del primato di essere stata la prima, in Italia, ad essere dotata nel 1893 di un impianto di illuminazione elettrica.
In modo analogo alle Grotte del Caudano e di Bossea, la grotta dei Dossi si presenta anch’essa con il tipico succedersi di ambienti e corridoi battezzati con i nomi più vari e fantasiosi: il “salone del lago”, i “bagni di venere”, il “corridoio delle colonne”, la “sala bianca”, la “galleria dell’innominato”, la “sala del camino”, quella “dei giganti” e la “grotta delle fate”; sono solo alcuni esempi di quello che si presenta come uno spettacolo per l’osservatore che qui si trova ad ammirare ricchissime concrezioni.
La caratteristica colorazione di quest’ultime costituisce un’autentica rarità per le caverne dell’arco alpino ligure; particolarità dovuta ai diversi sali minerali disciolti nelle acque di superficie che percolano nella cavità formando colonne, stalattiti e stalagmiti.
L’interno ha uno sviluppo complessivo di 510 metri con un dislivello di 21.
L’ingresso della grotta affaccia su un piazzale al quale si accede per una salita serpeggiante lunga 155 m. con 24 m. di dislivello.
Uscendo dalla grotta delle fate ci si trova su di un ampio piazzale capace di offrire una veduta panoramica spaziosissima. Questa vista abbraccia una gran parte della pianura piemontese da Cuneo a Torino, partendo, quando la limpidezza della giornata lo consente, dalle Alpi Cozie fino al Monte Rosa nelle Alpi Pennine. Esistono altre grotte in questa località anche se si conosce ancora poco sulla loro esistenza e conformazione. Secondo la tradizione popolare esiste un lungo corridoio in grado di congiungere la grotta dei Dossi con la grotta di Santa Lucia sull’altro versante della montagna: “La tradizione vorrebbe che alcune anitre, immesse a prova nella grotta e distinte con un nastro rosa, siano poi pervenute alla grotta del Dossi e abbiano finito a riverer la luce del sole nel lago di Beinette!!”.
Il Santuario: tre parti distinte.
Il santuario dedicato a Santa Lucia di Siracusa, affacciato sul confine del comune di Roccaforte, si presenta in tutta la sua gravità ed il proprio splendore a chi percorre la strada provinciale della valle Ellero in direzione Mondovì.
Il Santuario sorge sulle pendici esposte a sud-est del monte Calvario, ad una quota altimetrica di 610 m. L’intero complesso si trova ubicato a cento metri sopra il livello stradale ed è diviso in tre parti distinte: la grotta-Santuario (non visibile dall’esterno), un edificio risalente all’inizio del XVII secolo chiamato “l’ospizio”, e per ultimo la parte detta “Opera Bernardi” di costruzione ottocentesca.
Il Santuario, il cui ingresso è riparato dal portico dell’Ospizio, è una vasta cavità di forma irregolare interamente incavata nella roccia; nella porzione non interdetta ai fedeli misura ca 20 m. di profondità (dall’entrata all’altare di S.Lucia) per 8 di larghezza. Il pavimento della chiesa è leggermente inclinato verso l’ingresso, in modo da permettere un adeguato scolo delle acque che frequentemente stillano dalla volta rocciosa. La grotta prende luce attraverso la cancellata d’ingresso, da due piccole aperture laterali a quest’ultima che si affacciano sul loggiato e da una finestra ricavata più in alto della porta che affaccia però sopra il tetto del portico: “Così si ha la maggior luce e ventilazione possibile, ma non del tutto sufficienti“.
Alla destra dell’ingresso c’è la porta che conduce alla Cappella dell’Addolorata. Questa piccola stanza fu originariamente destinata ad uso di sacrestia fino alla metà del XVIII secolo, quando fu riadattata in forma barocca e sormontata da una cupola e da due finestroni ovali. Le pareti sono rivestite da una boiserie novecentesca fino ad un altezza di due metri circa.
Ancora sulla destra, alla metà dell’antro, in un piccolo anfratto dove fino ai primi anni del secolo si poteva ammirare un secondo altare (dedicato all’Annunciazione) protetto da una struttura voltata, c’è un’imitazione della grotta consacrata alla Madonna di Lourdes. Quest’antica configurazione è riscontrabile ancora nel 1843 nei disegni dei sopralluoghi di Clemente Rovere.
Sul fondo della chiesa, alla destra dell’altare, troviamo una piccola cappella con struttura muraria voltata a crociera. In quest’ambiente furono probabilmente conservati i resti del pilone originale. Delfino Orsi ne testimonia la presenza negli ultimi anni del XIX secolo.
Sulla porzione di parete, ortogonale all’ingresso, che separa quest’ultima cappella cinquecentesca dalla cavità ospitante l’antico altare titolato all’annunciazione, è ancora possibile riscontrare un frammento di affresco. Questo documento figurativo, databile anch’esso alla fine del XVI secolo, rappresenta parte di un personaggio inginocchiato e una porzione di un’altra figura in piedi, alle sue spalle, con uno scudo in mano.
Il Presbiterio è situato nella parte terminale della grotta, sopraelevato di due gradini; qui l’Altare si appoggia ad un frontone provvisto di nicchia per accogliere la statua in alabastro della santa.
L’ospizio è organizzato su cinque piani ed è arroccato direttamente sull’anfratto roccioso; il fronte verso la strada, rivestito da un intonaco biancastro, mostra una griglia irregolare di aperture (rettangolari ai lati e arcuate nel centro) che lo scandisce a fasce verticali. Oltre ad una grande croce segnata sull’intonaco, l’alta parete si conclude con un ultimo piano cadenzato da aperture arcuate di larghe dimensioni formanti un loggiato che serve da vestibolo alla grotta. Da questo portico si ha una splendida vista panoramica che verso ponente s’incunea verso la valle dell’Ellero incorniciando il paese Roccaforte e, volgendo lo sguardo a sinistra, su “il leggiadro e pittoresco (borgo di) Pianvignale annidato presso lo sbocco (nell’Ellero) della valle Maudagna”.
Il prospetto opposto è scavato nella roccia calcarea del Momburgo per tutta la superficie. La copertura, in tegole, è sormontata da un campanile barocco di forma triangolare e dalla cupola, dotata di aperture ovali, della Cappella dell’Addolorata.
L’Opera Bernardi è un fabbricato che si presenta, sul lato verso la strada, in mattonato rustico a vista risultante da tre ordini di arcate, per un totale di dieci archi per piano corrispondenti all’affaccio delle camere sul porticato. Gli altri lati sono rivestiti di intonaco rosa e mostrano aperture di piccole dimensioni.
Tale fabbrica fu costruita nel diciannovesimo secolo per destinarla ad edificio opportuno ad accogliere i gruppi d’incontro che, sempre più numerosi, convenivano per un conforto dello spirito. Proprio lo scopo provvidenziale e benefico del luogo lo rese celebre come “oasi” di S. Lucia, ossia come quel complesso comprendente il Santuario, l’ospizio e l’opera Pia Bernardi.
Due diverse vie permettono di accedere all’oasi; la prima, dalla località “case Rolfi” ubicata nelle adiacenze della strada provinciale,è un percorso stradale che sale ripido per circa mezzo chilometro fino a raggiungere un piazzale (oggi attrezzato ad area pic-nic) che circonda su due lati la costruzione e l’altra, collegante il borgo di Villavecchia e la sommità del monte Calvario, è un sentiero a tracciato campestre che attraversa la fitta boscaglia.
Il Santuario è organizzato in modo che i visitatori possano accedere all’interno della grotta a qualsiasi ora del giorno e della notte con un autonomo ingresso sempre aperto dal mese di marzo a quello di novembre, mentre il restante edificio (di proprietà della Parrocchia di S. Caterina di Villanova alta) è costantemente interdetto ai visitatori pur essendo stato recentemente oggetto di intervento.
Quest’ultimo lavoro, risalente ai primi anni ottanta, ha interessato quasi esclusivamente gli interni con lo scopo di adeguare la struttura e gli impianti alle normative igienico – funzionali, per offrire servizi di accoglienza con recettività a basso costo per vacanze, seminari, incontri e ritiri spirituali gestiti dalle stesse Suore amministratrici dell’Oasi. Esternamente l’intervento ha riguardato la sostituzione della precedente copertura in tegole della porzione di copertura della Sacrestia con una lamiera metallica.
Per Grazia Ricevuta: la memoria degli ex-voto.
Le radici di un santuario sono rappresentate dal suo elemento più simbolico: la presenza della tomba del martire, la reliquia di un santo, un richiamo figurativo o il pilone con l’immagine taumaturgica presso la quale si sono manifestati miracoli o guarigioni, come nel caso del Santuario di Santa Lucia. Il pellegrinaggio, recepito come fatto religioso e avvenimento sociale, esaurita la missione di annunciazione evangelica verso le terre più lontane, si è concentrato sul ritorno ai luoghi di devozione come rinnovamento continuo della fede. Questa devozione è generalmente accompagnata dalla speranza per la fine delle proprie sofferenze. Nel caso di una miracolosa guarigione: “La manifestazione della gratitudine avveniva infatti in svariati modi: dall’offerta in denaro al dono di qualche oggetto significativo di valore, dal far celebrare delle messe all’istituzione di legati testamentari, dal lasciare un ex-voto a chiedere addirittura di avere la propria tomba presso il santuario”.
Nel Santuario di Santa Lucia possiamo trovare molte di queste manifestazioni: i lasciti testamentari e le donazioni testimoniano nei secoli la devozione dei fedeli e la loro volontà di far crescere la fama della Santa titolare. La figura di Gian Andrea Bernardi, quale principale benefattore per la costruzione dell’edificio omonimo per la perpetuazione dello svolgimento degli esercizi spirituali, unita all’elenco degli altri contributori alla causa, conferma questo proposito. Tra i donatori si ricorda anche Giovanni Denini, di cui si conoscono contatti con la Principessa Ludovica di Savoia. Nel 1674 “Havendo presentito che si era fatta una capella nella chiesa di Santa Lucia che ancora non era provista di alcuna Ancona lui mosso da santa inspiratione ha fatto donativo di una anconetta intitulata alla Natività del Signore di egregio valore et ha pagato il porto da Torino al Mondovì” .
Gli ex-voto sono la dimostrazione della gratitudine verso Santa Lucia e costituiscono un rafforzamento della memoria della grazia iniziale da cui sorse il santuario. Nella sacrestia della chiesa sono ancora visibili numerosi quadretti raffiguranti la ricostruzione della scena dello scampato pericolo e la dedica: VFGR (voto fatto grazia ricevuta). I più antichi di questi rudimentali dipinti (tra quelli ancora disponibili), risalenti ai primi anni del 900, hanno generalmente un supporto metallico. Analogamente a quanto succede in altri santuari, dove è tradizione lasciare in dono oggetti strettamente collegati alla malattia o ad un generico scampato pericolo come grucce, protesi, ecc, nel Santuario di Santa Lucia, protettrice tra gli altri dei ciechi e degli oculisti ed invocata nelle oftalmie, troviamo soprattutto numerosi vecchi paia di occhiali. L’ex-voto più importante è quello che troviamo all’interno della chiesa, murato sulla parete di sinistra. Risalente al 1588-89, verrà descritto nei capitoli seguenti. per i devoti, un altro modo di esprimere la felicità per il proprio pellegrinaggio è la testimonianza dell’avvenuto sopralluogo tramite l’apposizione dell’autografo sulle pareti del santuario. Come sopraddetto, nel Santuario di Santa Lucia questa manifestazione è rintracciabile sul rivestimento ligneo della Cappella dell’Addolorata. Il desiderio di mantenere un legame con il santuario visitato poteva spingersi anche nell’atto dell’asportazione di oggetti sacri o parti di muratura.
Le origini tra realtà e leggenda: due ipotesi a confronto.
Nella ricostruzione dei motivi della presenza di un santuario in una posizione così particolare si deve tener conto della scarsità di documentazione; neppure gli archivi locali di una comunità pur così antica come Villanova Mondovì custodiscono i carteggi che ne documenterebbero una corretta ricostruzione.
Questa carenza si presuppone dovuta principalmente a due motivi: per primo agli effetti dell’occupazione napoleonica piemontese degli ultimi anni del XVIII secolo, precisamente quando, nell’ottobre del 1799, i soldati francesi punirono un tentativo di rivolta dei Villanovesi con atti vandalici contro l’arcipretura medievale della parrocchia di Santa Caterina e, nel Municipio che allora si trovava ancora nella sua sede in Piazza Santa Caterina dell’odierna Villavecchia, contro l’archivio comunale.
La seconda ragione di quest’insufficienza di documentazione si può trovare costatando che il Santuario nel corso dei secoli non fu mai amministrato da un ordine religioso, il quale avrebbe potuto esercitare una regolare catalogazione d’archivio. Per rispondere alla domanda anzidetta sulle ragioni della scelta di un così – un tempo – inaccessibile sito, si è costretti ad affidarsi alla tradizione popolare. Naturalmente, non essendo possibile documentare la fondatezza storica di una tradizione religiosa ormai secolare, si espone il contenuto, senza pretenderne l’attendibilità.
La narrazione è così riportata dall’autore dell’ultima monografia edita sull’argomento, Don Alberto Mandrile:
“Un giorno una giovane pastorella sordomuta, mentre era al pascolo nei pressi del pilone, vide apparirle una dolce figura femminile in sembianze celesti, la quale, donandole la grazia prodigiosa dell’udito e della parola, si manifestò per una richiesta particolare e strana: essa voleva che il pilone a lei dedicato, troppo abbandonato ormai e trascurato da lungo tempo, in pericolo per le acque vicino che lo minacciavano nelle fondamenta, fosse trasportato in una cavità della roccia sovrastante da essa indicata, affinché così non fosse totalmente rovinato dalle inondazione del torrente ma diventasse oggetto di venerazione cultuale.
La fanciulla, sentendosi per la prima volta ineffabilmente favorita della parola e dell’udito, con gioia incontenibile s’affrettò a portare il messaggio miracoloso a casa sua, che probabilmentepoteva essere nelle vicinanze. I familiari, nell’udirla parlare speditamente – si può immaginare con quale meraviglia e commozione – accolsero senz’altro come rivelate le parole dell’annuncio, trovando proprio nel prodigio della piccola sordomuta improvvisamente guarita la prova della verità del fatto, e disponendosi con alacrità a dare esecuzione del messaggio celeste.
La fama dell’accaduto si diffuse in un baleno tra gli abitanti della valle disseminata di borghi e casolari, che accorsero presto al pilone “miracoloso” di Santa Lucia per avere conferma dello straordinario avvenimento.
Per la veggente e i suoi familiari, come per tutta la popolazione del luogo, si trattava senza dubbio di un’apparizione di Santa Lucia; e la pia credenza passò così nella tradizione popolare che ci è pervenuta.
La gente, persuasa del fatto portentoso e della volontà espressa dall’apparizione come manifestazione superiore, e guidata dai familiari della veggente, si organizzò presto realizzare quanto era stato richiesto dalla figura misteriosa che aveva parlato e miracolato la pastorella sordo-muta. Con lo slancio dettato dall’entusiasmo religioso si decise allora di trasportare il rozzo pilone (probabilmente di modeste proporzioni), almeno in parte, in un antro naturale che si trovò nell’alto della roccia sovrastante, con un impresa che non dovette essere facile per l’altezza del sito e l’asprezza della parete calcarea, sulla quale non si trovava alcun segno di salita”.
“E subito una tale pietosa leggenda muove tutta una popolazione rozza e povera, che trova in sé, nello slancio della fede, la scintilla ignorata della fede…Con immaginoso ardimento ripara il “pilastrino” dal pericolo delle acque furiose affidandolo per contrasto ad un antro nascosto ed elevato, e si quota al lavoro e alle spese notevoli per creare lassù un tempio maestoso”.
Il sito rivelato nella narrazione può quindi essere indicato coincidente o nelle immediate vicinanze dell’attuale borgata della Case Rolfi, coincidente alla confluenza del torrente Lurisia con il fiume Ellero. Fu quindi deciso di trasportare il pilone della santa al riparo dalla forza delle acque, in un anfratto o in una piccola grotta sulle pendici del Monte Calvario. Come vedremo non si trattava della grande grotta, che adesso accoglie il Santuario, ma di una molto più piccola che si presentava circa venti metri più in basso.
Verosimilmente, con il passare del tempo e con il lento diffondersi della notizia dell’avvenuto miracolo, questa piccola grotta non fu più sufficiente per accogliere il numero sempre crescente di devoti, e, al fine di rendere più accogliente la cappella, fu fatta richiesta d’intervento all’Amministrazione Parrocchiale della chiesa di Santa Caterina di Villanova (per appartenenza giurisdizionale) per un’eventuale ampliamento.
L’Arcipretura, convinta dalle numerose testimonianze dei fedeli accorrenti, si fece carico della costruzione di un piccolo alloggio proprio davanti all’antro con lo scopo di fabbricare un riparo al sacerdote officiante oppure all’eventuale pernottamento del romito.
I lavori di preparazione alla suddetta costruzione permisero di scoprire, poco sopra la prima, una grotta molto più ampia ed appropriata per un Santuario che ormai poteva vantare molteplici e straordinarie guarigioni. Fu così scoperta la stessa grotta che ancora adesso ne è la sede, mentre la prima fu inglobata dall’ampliamento dell’ospizio, andandone a formare i locali sotterranei.
In conformità a questi elementi, l’ultimo rettore di Santa Lucia Don Secondo Odasso,nel tentativo di avvalorare e datare l’avvenimento del miracolo, sostiene che le inondazioni che minacciarono il pilone potrebbero coincidere con quelle avvenute realmente nel periodo compreso tra la fine del XIII e la prima metà del XIV secolo negli stessi territori.
Don Mandrile è rivolto a scartare suddetta ipotesi considerandola “assai improbabile” e non trovandovi una giustificazione storica accettabile. Quest’ultimo autore preferisce far risalire l’eventuale miracolo dell’apparizione ad almeno un secolo antecedente alla data delle prime documentazioni certe, vale a dire agli atti della Visite Apostoliche condotte da Mons. Gerolamo Scarampi (risalenti al 1582-1583) e a quelle dei suoi successori.
La scelta di questo periodo di fine XV sec. è motivata dal fatto che, confermando ovviamente l’esistenza della Grotta già alla prima visita apostolica, bisogna arretrare la data dell’ipotetico miracolo di almeno un secolo. In altre parole, di un lasso di tempo necessario per consentire alla credenza popolare di diffondersi ed alla fama della Vergine Martire del Santuario di affermarsi.
Le alluvioni del XIII secolo.
La prima ipotesi quindi arriva a datare l’origine del Santuario ai primi decenni del XIV secolo. Bisogna tener conto tuttavia che la zona in questione doveva essere allora molto diversa; infatti il Nallino, già nel 1788, individua sulla sponda sinistra dell’Ellero (scendendo a valle), i resti di alcune case, intese come “tenue avanzo dell’antica Grafiasco”.
I primi abitati di Villanova sono unanimemente riconosciuti come le “Ville” di Gragnasco (odierno sito delle case Rolfi alla base del Santuario), e Grafiasco (odierno sito dei Gosi di Pianvignale sulla sponda opposta dell’Ellero).
Gli scritti del Nallino ne riportano la notizia dell’esistenza già:
- Nel 1256; in una donazione fatta da Otto Ponzio di Gragnasco al Monastero di Pogliola di una vigna e un bosco posti in Gragnasco.
- Nel 1238; in una donazione di terre fatta dai Signori di Morozzo a favore della Certosa di Pesio.
- Nel 1014; concessione all’abbazia di S. Benigno da parte dell’Imperatore Enrico “omnes terras ilias…in Gragnasco, & Roccaforte”.
questi paesi furono probabilmente distrutti dal fiume Ellero che, in seguito ad esondazioni, cambiò il proprio corso assumendo così quello attuale, che scorre nelle strette vicinanze del monte Calvario.
Lo stesso Nallino, in base alle testimonianze delle conoscenze di allora, basate a loro volta sui ricordi dei predecessori, arriva a datare questo cambiamento come risalente “a più di un secolo prima”,quindi sicuramente precedente alla fine del XVII secolo. Le tesi dell’origine di Villanova e del cambiamento di corso del fiume parrebbero essere confermate da un altro testo, storicamente antecedente, di Padre Basilio Orsi:
“Il sito di Villanova antica prima nostra patria, senza dubbio era nel piano del fiume Ellero, alle falde della collina, lungo la strada di Roccaforte; il suo suolo è ormai intieramente corroso ed occupato dal fiume il quale come intesi da persone attempate, da 100 anni a sta parte cambiò del tutto sito e corso, di modo che scorre ora sotto le mura dell’antica parrocchia (…), la celebre Cappella detta di Santo Niccolao (…), che fù sempre (…) l’antico titolare e patrono della suddetta antica Villa”.
Quest’ultima cappella citata, la Parrocchiale primitiva di San Nicola Vescovo fu anch’essa abbandonata a causa della forza delle acque.
Inoltre, ancora il Nallino, riporta di gravi alluvioni verificatesi negli stessi luoghi nel periodo compreso tra il 1238 e i primi anni del secolo successivo: allagamenti dalla portata talmente distruttiva da costringere gli abitanti delle “ville” suddette ad abbandonare le proprie case ed a ricostruirle più in alto, sulla collina del Momburgo. La prova dell’esistenza dei primi fabbricati in questo nuovo sito, consisterebbe nel esistenza di una lapide inserita in un pilastro del presbiterio della “vecchia” Parrocchia di Santa Caterina.
La dicitura, datata 1369, ci narra della costruzione di un forte denominato “La Bastita” (distrutto nel XVII sec.) di presidio e di difesa alla stessa chiesa di Santa Caterina:
Anno 1369 die 28 aprilis aedificata fuit Bastita in Villanova superiori et ecclesia S.Catherinae et erat exercitus Domini Galeaci cum Marchione Ferriae qui exercitus erat prope Montem Vicum. anno MCCCLXIX.
Petrus Baravallus rescripsit: anno 1519 .
La didascalia precedente è stata così tradotta da Don Mandrile:
“L’anno 1369, il giorno 18aprile – Fu costruita (questa) fortezza in Villanova, sovrastante (presso) la Chiesa di Santa Caterina – (Minacciava allora Villanova) l’esercito del duca Galeazzo (2° Visconte di Milano), comandato dal Marchese di Ferrara, che stava assediando Mondovì (‘Montem Vicum)”.
Quindi la costruzione della prima Chiesa di Santa Caterina è sicuramente antecedente al 1369 e questa potrebbe essere la conferma dell’avvenuta edificazione da parte dei Villanovesi in un nuovo territorio in seguito agli allagamenti subiti dal 1238. successivamente, con l’avvenuta costruzione di questa fortezza sulla “più alta eminenza del vicino colle”, “alcuni principiarono a fabbricarsi delle case sopra la collina e in vicinanza del nuovo castello quanto più potevano: ed ecco, che quanto più di fabbriche e di abitatori di giorno in giorno cresceva la nostra nuova Villa, all’istessa misura consumava l’antica che stava a S. Niccolà in valle Gragnacci cioè nel fondo della collina”.
Le visite pastorali di Mons. Scarampi e Mons. Castrucci.
Il Monsignor Gerolamo Scarampi fu inviato da Papa Gregorio XIII ad esaminare, con l’incarico di visitatore apostolico, l’intera diocesi monregalese sotto richiesta dell’allora Vescovo di Mondovì Vincenzo Lauro.
Nel febbraio del 1583 lo Scarampi, accompagnato, o probabilmente sostituito, dal proprio coadiutore Bartolomeo Ferrero di Mondovì (futuro Vescovo di Aosta), fece visita alla Parrocchia di Santa Caterina in Villanova per poi recarsi alla confinante parrocchia di Roccaforte. Nel tragitto di collegamento fu visitata anche la grotta di Santa Lucia. La relazione recita:
“Visitavit D Visitator capellam Sanctae Luciae in caverna montis distantem ab oppido 500 passus. In ea sunt altaria quinque ad quae celebrari solet in festo Sanctae Luciae ex devozione populorum ad eam concurrentium. Asseritur communitatis et per massarios annuales regitur, qui santum tectum et clavem tenent. Est sine redditibus et sine oneribus”.
Il testo del decreto corrispondente alla relazione recita :
“De capella Sanctae Luciae in caverna montis extra opidum ad quingentos passus iussum est ut reparata scala fracta. Fiat altera, ut in cuncursu populorum ad devotionem die festo sanctae Luciae per unam ascendatur, per alteram descendatur ad vivanda scandala et tumultus. De ea tollantur altaria praeter duo, quae ornentur ad praescriptum decretorum generalium”.
Nella relazione e nel suo decreto sono annotate quindi disposizioni al riguardo della demolizione di tre dei cinque altari presenti, per conformarsi alle norme dei decreti generali, e, con riferimento alla scala, ordinando di riparare quella esistente e di costruirne un’altra per consentire ai pellegrini devoti, così numerosi nel giorno del 13 dicembre, di rendervi omaggio evitando “scandala et tumultus”.
La visita Scarampi non include una descrizione esaustiva della chiesa ma testimonia con certezza l’esistenza di una fama e di una devozione popolare sicuramente diffuse. Questa testimonianza è confermata da una lapide, risalente alla fine del XVI secolo, che rappresenta il più antico documento ex-voto a noi pervenuto. la piccola lapide, che ancora adesso è possibile osservare sulla parete sinistra della grotta-santuario ci viene in aiuto nella ricostruzione della struttura originaria del santuario.
Nella sua parte inferiore l’epigrafe narra di una grazia richiesta e ricevuta dal monregalese Clemente Vivalda, allora docente di diritto all’Università di Torino; nel giorno di Santa Lucia del 1588, fu emesso un verdetto benevolo nei confronti di Mondovì in relazione ad una disputa sulla suddivisione dei corsi d’acqua destinati all’irrigazione agricola e provenienti dal comprensorio Peveragno – Beinette.
Così recita:
clemente vivaldo patricio del
mondevì primo lettor legista
in torino dovendo l’ecc. senato
il giorno di S. LUCIA del mdlxxx8
decidere l’importantiss cavsa della
nova diversione dell’aqve da pevi
ragno et beynette, attentata con
tra la sva patria della quale
egli era avvocato aggionse alle
bvone raggioni qvesto voto et si
ottenne la sentenza confirmata
di poi ancora l’anno segvente
li xi di ottobre
Nella parte superiore invece un piccolo bassorilievo descrive lo stato della caverna in quell’epoca. Si tratta probabilmente della seconda grotta in cui fu ubicato il pilone della santa e al suo interno è visibile la statua con la palma del martirio e con in mano il bacile per gli occhi. All’esterno è ben visibile la ripida e tortuosa scaletta di collegamento all’entrata, ricavata probabilmente nella stessa pietra calcarea della montagna. Scaletta che si presume collegasse l’attuale grotta-santuario a quella primitiva.
Ricordando la datazione contenuta nell’epigrafe, e ipotizzando che questa fu realizzata nello stesso periodo (coincidente o immediatamente dopo il 1588), si può affermare che le disposizioni contenute nel decreto della visita pastorale di Mons. Scarampi (del 1583) non furono affatto eseguite con la celerità che era lecita attendersi. Infatti nell’iscrizione muraria appare solo una scalinata e non c’è traccia del raddoppio auspicato dall’emissario del Vescovo Lauro.
Troviamo conferma di quest’omissione anche nei decreti della visita pastorale del mons. Giovanni Antonio Castrucci, il quale sarà vescovo di Mondovì fino al 1595 come successore di Vincenzo Lauro, e che rinunciò alla carica già nel 1587 “non per minore affezione ma per l’età e per l’importanza degli altri suoi uffici”.
Nella sua relazione, del 10 novembre 1586, quindi tre anni dopo la visita dello Scarampi, dovette ripetere l’ordine di distruggere, tra l’altro, tutti gli altari “fatti sproporzionatamente, e senza ordine, deformi e mal ordinati”.
Inoltre, nello stesso decreto, si legge l’ordinanza di costruire una sorta di terrapieno ai piedi della scala, riferendosi quindi a quest’ultima sempre al singolare. Mons. Castrucci arriva addirittura a minacciare l’interdizione della cappella se i lavori, comprensivi della sostituzione della statua della santa con un’altra di più pregevole fattura, non saranno eseguiti entro tre mesi. La dignità dei luoghi sacri fu una sua costante preoccupazione, e la possiamo trovare riassunta nei suoi decreta del 1593:
“La chiesa deve assumere uno spazio ben definito, dove l’altare maggiore, quello dove si conserva il Santissimo, assume la preminenza assoluta rispetto a quelli minori, che debbono essere abbattuti nel caso si trovino troppo vicini o dirimpetto ad esso”.
L’esistenza di numerosi altari all’interno della chiesa è un dato riscontrabile ancora nel 1843 grazie ai disegni di Clemente Rovere, e soprattutto in un documento non firmato del 1853.
Si cita: “L’Altare maggiore è di marmo con statua pure di marmo rapp.te S. Lucia, con suo tabernacolo e balaustra di marmo, elevata tre gradini: altro Altare parte in marmo, e parte in massoneria, con tabernacolo di marmo, col quadro rappresentante l’Annunziazione di Maria V.e , la nascita di G.C. e la circoncisione”.
Oltre alla descrizione del secondo altare, che supponiamo ubicato nella piccola cappella con volta a crociera e capitelli cubici a lato del presbiterio, notiamo quindi la presenza di un dipinto: “Si tratta del trittico di scuola fiamminga cinquecentesca attualmente alla Galleria Sabauda di Torino (cat. 195), raffigurante L’Adorazione del Bambino, l’Annunciazione e la Circoncisione”.
La demolizione di tutti gli altari, ad esclusione di quello principale, è databile con precisione. Infatti si può farla coincidere con la sicura vendita, nel 1867, del trittico suddetto alla Regia Pinacoteca Nazionale.
Le altre visite pastorali.
Le visite pastorali di Mons. Scarampi e Mons. Castrucci, articolate in atti e relativi decreti con le indicazioni per i massari, costituiscono le prime documentazioni scritte di cui possiamo usufruire nell’intento di risalire alla struttura originale del Santuario.
Le suddette visite apostoliche, riferenti al decennio dal 1582 al 1593, si soffermano quasi esclusivamente sulla descrizione dell’interno della chiesa oppure sullo stato di conservazione del sistema di scalinate esterno.
Per trovare una relazione, seppur brevissima, sull’aspetto esterno della fabbrica, si deve aspettare la visita Apostolica di Mons. Beggiamo. Gli Atti di questa visita, datata 1658-1661, sono articolati inizialmente con una breve descrizione dell’interno del Santuario.
Di maggiore importanza è la seconda porzione di testo: la chiesa, nella sua parte anteriore (l’ingresso), è dotata di un portico che la protegge e che serve per l’alloggio dell’eremita (forse il primo, di nome Aloysius).
Per la prima volta viene citato quindi un fabbricato esterno alla grotta.
Il portico è probabilmente lo stesso che ancora adesso “anticipa” l’ingresso alla grotta, mentre l’alloggio potrebbe consistere nell’attuale sacrestia dello Spirito Santo.
La visita Apostolica di Mons. Beggiamo ci informa inoltre dell’esistenza di una volta in muratura costruita per proteggere l’altare di Santa Lucia dall’acqua stillante dalla roccia all’interno della grotta.
Le visite pastorali che seguono cronologicamente, dalle prime del 1698-1701 e 1718-1720 di Mons. Isnardi alle visite del 1749 e del 1753 del Vescovo SanMartino, non aggiungono nessuna informazione per quanto riguarda l’aspetto esterno della fabbrica. Le traduzioni delle relazioni ci informano ripetutamente sul fatto che la Cappella è provvista degli altari e degli ornamenti necessari all’ostensione del santissimo, nonché alla venerazione della reliquia della santa. Troviamo inoltre le Descrizioni dell’allestimento all’interno della chiesa, in particolare della conservazione della reliquia argentea e degli ambienti contigui alla cappella: spazi adibiti per lo svolgimento degli esercizi spirituali e custoditi dal romito
Nella ricerca di una collocazione temporale dell’origine del santuario dobbiamo tenere conto anche della visita diocesana del vescovo Michele Ghisleri e della visita pastorale di Mons. Antonio Vacca, entrambe visite antecedenti a quelle citate precedentemente, ed entrambe contrastanti con l’ipotesi fatta da Don Mandrile, il quale suppone l’origine del Santuario alla fine del XV secolo.
Nel 1560 la città di Mondovì tornò sotto il dominio dei Savoia, e fu Emanuele Filiberto, l’anno seguente, ad accogliere come proprio vescovo il Ghisleri.
“Mondovì considerò sempre come una sua grande gloria l’averlo avuto vescovo e in più occasioni diede a conoscere questi suoi sentimenti e quando fu eletto pontefice col nome di Pio V, e quando fu dichiarato beato e poi santo”.
Nonostante la grande affezione per il territorio e per la gente monregalese il Vescovo Ghisleri fu occupato, per la maggior parte della sua investitura, dai compiti di sommo inquisitore a Roma. Il 25 agosto del 1561 fu di ritorno a Mondovì, per dimorarvi 50 giorni, e in questo breve tempo riuscì a visitare alcune parti della diocesi, ma “non tutte le trentasette terre, di cui allora si componeva” .
Visitò sicuramente, attenendosi ad una costante tradizione, anche la cittadina di Roccaforte, dove alloggiò nella villa del conte Cordero di Belvedere.
Tuttavia, per poterla raggiungere, il vescovo sarebbe dovuto certamente transitare sulla strada che lambisce a valle il Santuario di Santa Lucia.
La constatazione che negli scritti non ci sia nessun riferimento ad una visita del Vescovo o all’esistenza della grotta potrebbe significare che alla metà del XVI sec. non si fosse vericata alcuna apparizione miracolosa o che comunque la fama del santuario non fosse ancora diffusa.
Questa tesi è confermata dalla lettura degli “Atti della visita pastorale fatta da Mons. Antonio Vacca suffraganeo di Mons. Lorenzo Fieschi” del 1515-1517, in cui sono visitate le diocesi di Villanova e Roccaforte; neppure in questo caso la grotta di Santa Lucia è nominata.
L’Opera Pia Bernardi.
Fin dalla prima metà del XVIII secolo il Santuario di Santa Lucia divenne una sede di grande valore per quanto riguarda l’organizzazione degli esercizi spirituali. Questa pratica, fatta di preghiere e meditazioni per il “ritrovo dell’anima”, risulta essere una antica tradizione per il territorio monregalese: basti ricordare l’opera di formazione religiosa di figure locali quali Padre Antonio Rosa e Padre GiovanBattista Trona.
Non è noto l’anno in cui gli Esercizi Spirituali vennero inaugurati in questa sede ma ne troviamo il primo importante riferimento già in un’annotazione riferita alla visita di Padre Ghesio che si era ”portato alla cappella per visitar e raconoscer se ci sia opportunità per la fabrica a detar gli esercizi spirituali”, mentre si ha certezza dell’esercizio di tale pratica nei testi nella visita pastorale di Mons. Isnardi datata 1719.
Il Vescovo, oltre alla descrizione dell’allestimento dell’interno della chiesa nei giorni della festività della santa titolare, cita l’esistenza di molte stanze a disposizione dei fedeli, confermando così l’esistenza di un ospizio nei piani inferiori alla chiesa e, per la prima volta, menzionando la capacità ricettiva del Santuario.
Nel corso della prima metà del XVIII secolo il Santuario vede la costante crescita di fama e di devozione, come si può costatare dal riferimento alla moltitudine di elemosine e di “vota argentea offeruntur” portati dai fedeli al capezzale della santa e raccolti dal priore e tesoriere Marco Toscano.
Da questo periodo il Santuario di Santa Lucia, trasformatosi in un ricercato luogo d’incontro a favore della spiritualità, ha la necessità di adattarsi (e forse in parte ampliarsi) a questo scopo.
In seguito, non riuscendo più ad accogliere la moltitudine dei devoti in cerca di un ristoro dello spirito, intorno ai primi anni dell’ottocento il Santuario fu dotato di un apposito edificio per ospitare un maggior numero di esercitandi: l’Opera Pia.
Un importante documento datato 19 maggio 1750 attesta la disposizione testamentaria di Gian Andrea Bernardi originario di Villanova, il quale designa la confraternita di Santa Croce, eretta presso la parrocchia di Santa Caterina a Villavecchia, erede di un lascito: “Con l’obbligo di far dettare annualmente, oppure ogni due o tre anni, secondo le possibilità di cassa, i santi spirituali esercizi nel Santuario di Santa Lucia, designandovi dodici piazze gratuite”.
Questo lascito consisteva quindi in una grossa somma di denaro, sebbene l’esatto importo non sia oggi documentabile.
Da una parte di questo provvidenziale aiuto la confraternita poté ricavarne i mezzi per attuare la sopra citata organizzazione degli esercizi e per la necessaria opera di rinnovamento della struttura per le dodici “piazze”.
La “piazza” deve essere considerata oggi come un invito ad usufruire gratuitamente dell’ospitalità e dell’attività religiosa svolta nel Santuario; i privati più religiosi ed abbienti del luogo donavano questa opportunità ai loro conterranei meno fortunati o alla capacità di designazione del Priore in carica.
Solamente dopo il periodo napoleonico, con la ritrovata passione dovuta forse agli anni della Restaurazione, si ricorse all’altra parte del lascito, il quale, sommato ai profitti ricavati dalla vendita di varie proprietà terriere in possesso del Santuario per disposizioni donative nel corso dei secoli XVII e XVIII, rese possibile la costruzione di un secondo fabbricato attiguo al preesistente.
Questa ricostruzione parrebbe confermata nella Relazione della Visita Pastorale compiuta dal vescovo Mons. Giovanni Battista Ghilardi: “Li beni stabili legati dal M.R. sig. D. Calcagno e da altri legati sono stati alienati da lunga data, come consta da vari ordinati, e i ricavati concorsero alla ristorazione di quella chiesa e nell’amplificazione della fabbrica ivi attigua che serve d’abitazione del sig. Cappellano e al Romito, e della grande fabbrica degli Esercizi Spirituali eretta per lascito di certo sig.Bernardi (1750).”
Dal 1819 venne così realizzato questo nuovo braccio alla destra dell’Ospizio, e ad esso direttamente collegato in corrispondenza di ogni livello.
Si tratta di un edificio organizzato su tre piani e caratterizzato da un triplice ordine di arcate a tutto sesto, esternamente lasciate a mattoni a vista e delineanti internamente un loggiato che serve da vestibolo di ingresso alle rispettive camere (otto stanze più due bagni per ogni piano).
Il piano terra, che un tempo era riservato ai locali di deposito per il legname e per altri materiali, oggi conserva l’affaccio su un piccolo giardino mentre l’unica loggia tamponata accoglie i locali della lavanderia.
I piani primo e secondo sono capaci complessivamente di circa quaranta posti letto, dotati di uno splendido affaccio a sud sulla Valle Ellero e sul comune di Roccaforte Mondovì.
Il documento originale del capitolato degli interventi necessari alla Costruzione dell’Opera Pia Bernardi del 1820 ci descrive brevemente le caratteristiche architettoniche richieste dalla committenza: il sig. Donato Bessone, con il grado di capo mastro, si incaricò di costruire un fabbricato di tre piani, le cui stanze fossero voltate a vela fatta eccezione per quelle del primo piano. Si impegnò inoltre a pavimentare (ingrannire) tutti i piani tranne il pianterreno, a dotare tutte le stanze di una porta, di una finestra a due battenti e ad attrezzare tutte le balconate di un opportuno parapetto.
In realtà, come possiamo costatare oggi, ci fu un cambiamento nella messa in opera del progetto, infatti, anche le volte del primo piano furono successivamente voltate a vela.
Un documento ancora più antico datato maggio 1695, che possiamo considerare unicamente come una bozza preliminare mai realizzata e firmata dal signor Giuseppe Giacaria, ci consente di leggere l’andatura longitudinale del progetto originale con la divisione delle camere prive però dei rispettivi loggiati.
“La nuova “fabbrica” venne progettata appositamente – e diciamo anche abbastanza modernamente per quei tempi – con la finalità precisa di fare del Santuario un razionale e attrezzato centro di ospitalità per incontri di gruppi, per soste di silenzio anche prolungate e per riunioni comunitarie. Il complesso, recentemente rinnovato, ha preso il nome di Oasi di Santa Lucia”.
Come sopra accennato, dopo la stasi causata dalle occupazioni napoleoniche nel territorio monregalese e il conseguente fortificarsi della fede al loro allontanamento, gli esercizi spirituali videro aumentare le adesioni dei fedeli e la loro cadenza ritornò ad essere semestrale. I benefattori continuarono a incrementare i redditi dei precedenti lasciti finché, nella metà del XIX sec. si poterono contare almeno 18 posti letto per gli esercizi spirituali (Don Mandrile riferisce di 25 piazze gratuite sul finire dell’Ottocento).
Questo periodo così positivo accompagnò quindi il Santuario attraverso tutto il secolo superando anche le depauperazioni minacciate dalle leggi Rattazzi e Ricasoli-Rattazzi.
Infatti, nel gennaio del 1868, il Demanio prese in possesso l’Opera Pia Bernardi secondo le disposizioni di legge sulla liquidazione degli assi patrimoniali ecclesiastici. L’anno seguente gli amministratori del santuario presentarono un ricorso chiedendo la restituzione di tutti i beni. Il ricorso venne accettato ed il Ministero delle Finanze, nel marzo del 1869, ne ordinò l’immediata retrocessione.
La pratica degli esercizi spirituali andò scemando solo a cavallo del Novecento. L’impegno formativo cominciò ad essere rimandato ogni due o tre anni a causa del forte deprezzamento dei fondi in possesso della Confraternita di Santa Croce fino a quando questi lasciti, o quello che ne restava, furono azzerati dalla forte inflazione e assorbiti dall’amministrazione del Santuario.
Nel secolo scorso gli allacciamenti dei primi anni cinquanta alle condutture dell’acqua potabile e a quelli della luce elettrica hanno finalmente consentito all’Oasi di riacquistare la sua vocazione formativa ed educatrice.
La provvidenziale coincidenza della nascita della Casa Gentilizia delle Suore Missionarie della Passione in Villavecchia, ha garantito la gestione costante dei nuovi incontri estivi che hanno ormai raggiunto i giorni nostri.
R. Garelli, A. Bianco, G. Faccenda
TRATTO DA: R. Garelli, A. Bianco, G. Faccenda, Il Santuario di Santa Lucia V.M. di Villanova Mondovì: conoscenza e conservazione. Tesi di Laurea Politecnico di Torino, II Facoltà di Architettura – sede di Mondovì, a.a. 2003/2004. Relatore Maria Grazia Vinardi. Correlatore Mauro De Bernardi